BUFFER E CEDIMENTO, COME E QUANDO UTILIZZARLI

Cedimento muscolare e buffer sono due componenti dell’allenamento molto importanti, che vedono spesso scontrarsi i sostenitori del “bro, spacco tutto, tira ogni fucking set”, con quelli del “no no, basta, sei andato oltre, non esagerare”.
Finito di sdrammatizzare….
Sono due fattori che si rivelano veramente utili se utilizzati con cognizione di causa e la presenza di uno non pregiudica la presenza dell’altro, al contrario, ma possono diventare un impedimento se inseriti senza una logica, andando dal rendere de allenante una seduta al renderla “troppo”.
Ma quale di questi è quello che risulta realmente utile?
Partiamo col capire meglio il concetto di buffer e cedimento per i meno avvezzi all’argomento, così da rendere tutto più chiaro:

-Buffer: stimolazione muscolare con riserva e senza esaurimento, ovvero, una serie non portata all’incapacità, quindi un set in cui ci fermeremo prima di arrivare al nostro reale limite fisico.

-Cedimento: serie protratta all’incapacità, ovvero, una serie in cui andremo avanti fino a che non ci sarà possibile eseguire altre ripetizioni.
Torneremo dopo sul cedimento, poiché, viste le molteplici tipologie di cedimento presenti, la risposta potrebbe essere in parte fuorviante, o considerata errata dei tecnici del settore, ma dovendo solo rendere l’idea di cosa sia, penso possa essere una definizione più che adeguata.

Dopo aver letto queste due definizioni qualcuno starà già storcendo il naso e pensando: “ma a cosa serve una serie se mi fermo prima del limite?”
Serve, anche perché, chi si starà ponendo questa domanda, forse non sa cosa significhi portare realmente a cedimento ogni serie, dato che, salvo con l’ausilio di volumi di allenamento bassi è pressoché impossibile protrarre ogni serie a cedimento, l’SNC (sistema nervoso centrale) ha un limite e dopo quel limite inizierà a farti percepire tutto molto più “duro/pesante” di quanto sia realmente, o, lo diventerà col tempo a forza di accumulare “stress su stress” di allenamento in allenamento, ritrovandosi poi cotti a puntino.

Vediamo di capire meglio come funziona il cedimento per far chiarezza.

CEDIMENTO

Prima di tutto vorrei dare delucidazioni riguardo l’affermazione riportata sopra, nella “definizione” di cedimento, andando ad elencarne tutte le tipologie presenti:

-CEDIMENTO TECNICO: Per cedimento tecnico si intende un set in cui l’ultima ripetizione risulta piuttosto ostica e rallentata rispetto alle altre, senza che però vi sia una perdita della forma e quindi risulti perfettamente sovrapponibile alla prima.

-CEDIMENTO CONCENTRICO: La serie in questo caso termina una volta raggiunta l’incapacità contrattile, ovvero: spingo fino a farmi uscire le emorroidi ma il peso non si sposta nemmeno se pago un trans per sodomizzarlo.

-CEDIMENTO STATICO: La serie termina una volta che, non solo non si riesce più a completare la fase eccentrica, bensì, quando anche cercando di mantenere una posizione statica non sono in grado di rimanere in quel punto del ROM.

-CEDIMENTO ECCENTRICO O MUSCOLARE: Questa è la forma di cedimento più elevata che ci sia, in questo caso la serie termina una volta che, non sono più in grado di portare a termine la fase concentrica del movimento ed anche provando a fermare il carico in un punto X questo continua a scendere e non sono minimamente in grado di oppormi a ciò.
Si tratta di un grado di cedimento veramente elevato da raggiungere e richiede un grande bagaglio di esperienza, oltre che due coglioni grossi come una casa.

Ecco, queste sono le quattro tipologie di cedimento presenti, tutte richiedono un enorme sforzo a livello neurale e vien da sé che applicarle su ogni set è impensabile, anzi, su alcuni esercizi non può, o meglio, non dovrebbero mai essere utilizzati!
Prendiamo ad esempio uno squat, prima di tutto, quanti sono in grado di portare a reale cedimento, anche solo concentrico, uno squat?
Pochi, quanti sono in grado di farlo senza sporcare la tecnica?
Forse due persone al mondo?
Ecco, questo, ma anche soltanto l’idea di portare tutte le serie di uno squat a cedimento fa capire quanto irreale possa risultare ciò su esercizi multiarticolari che presentano schemi motori così complessi.
Aggiungiamoci anche il fatto che il rischio di infortunarsi su esercizi come questi è elevato, vien da sé che l’ausilio del buffer in una situazione del genere sarebbe una scelta sicuramente migliore.
Soprattutto considerando che, l’atleta che ottiene più risultati è quello che non si infortuna, un uccello con un’ala spezzata ha poco da fare…

Quindi dobbiamo allenarci a buffer?
No, o meglio, non solo!

Allora cosa facciamo?
Vediamo ora come funziona il buffer e come ci si regola, così da avere un quadro più completo e poter tornare poi a disquisire su cosa e quando sia meglio.

BUFFER

Come già detto sopra, eseguire delle serie a buffer consiste nell’utilizzare un range di ripetizioni con un determinato carico che permetta di concludere la serie prima di raggiungere il cedimento.
Esistono varie tipologie di gestione del buffer, le più utilizzate nel bodybuilding sono quelle ad autoregolazione che arrivano dal mondo della pesistica, sempre presenti ma meno utilizzate nel nostro campo, anche quelle con lavori a percentuale.
Le più classiche che sfruttano l’autoregolazione sono la scala RPE o la scala RIR, entrambe molto simili tra loro, con una piccolissima differenza:

-RPE: scala di percezione dello sforzo che va da 1 a 10, in cui 10 corrisponde al cedimento, quindi al massimo sforzo e via via che si scende coi numeri ci si allontana sempre di più da questo.
È basata come scritto sull’autoregolazione, quindi l’atleta dovrà essere in grado di autogestirsi in maniera intelligente.
Si presuppone che venga utilizzata però su atleti con un ampio bagaglio di allenamento alle spalle, in quanto, un soggetto meno esperto tenderebbe a sopravvalutarsi o in caso contrario sottovalutarsi, cosa che comprometterebbe totalmente il senso del loro utilizzo.
Trattandosi però di una scala di percezione dello sforzo, non si potrà mai essere precisissimi e potrà portare a risultati differenti di volta in volta, magari capita il giorno in cui si è più stanchi e le ripetizioni a parità di RPE scenderanno o viceversa.

-RIR: scala basata sempre sulla percezione dello sforzo, che però va a stabilire quante ripetizioni di buffer lasciare, ad esempio RIR 1, implica che la serie termini con energia a sufficienza a chiudere ancora una ripetizione.
Questa non si discosta troppo dalla scala RPE ed i discorsi fatti sopra risultano quasi analoghi.

Queste sono le metodiche più utilizzate per la gestione del buffer, personalmente preferisco l’utilizzo della scala RPE per gestire il grado di intensità da esprimere.
Il buffer torna utile perché permette di allenarsi in sicurezza ed accumulare maggior lavoro causando minor stress a livello strutturale e mantenere una miglior tecnica, infatti è quasi un must in esercizi come lo squat in cui l’infortunio è dietro l’angolo.
Facciamo un esempio, vado ad eseguire una serie da 10 ripetizioni sulla chest press, raggiungo il cedimento e proseguo con delle forzate grazie agli spotter, dopo di che termino il set, ipotizziamo siano uscite 11/12 ripetizioni, la serie successiva sarà già tanto se ne andrò a concludere 5/6 e quella dopo 4/5.
Così avrò totalizzato 20 ripetizioni all’incirca, mentre, se avessi eseguito la prima serie da 9 ripetizioni, sarei probabilmente riuscito a chiudere anche le altre in quel reps range e avrei totalizzato 27 ripetizioni.
Quindi, maggior lavoro e minor stress a livello strutturale e sistemico, ottimo no?

Allora mi alleno sempre in buffer ed ho risolto ogni problema?

NO!

Anche questa non è la soluzione, anzi…
Vero che un lavoro del genere permette di accumulare maggior lavoro in sicurezza e che comunque le serie forniscono uno stimolo allenante, ma purtroppo è necessaria anche l’alta intensità, quindi serve anche raggiungere il cedimento muscolare.
Perché è vero che anche lavorando a buffer puoi reclutare tutte le fibre, ma sfinirle è un altro discorso.

CEDIMENTO E BUFFER DEVONO COESISTERE

Non è possibile lavorare solo a cedimento se non voglio farmi male, o stallare, o addirittura andare in over reaching dopo poco, come non mi è possibile lavorare solo a buffer ricercando miglioramenti costanti.
Cedimento e buffer sono due facce di una stessa medaglia che devono alternarsi ed aiutarsi nel raggiungimento dei vostri obiettivi.
Il buffer permette di accumulare lavoro in sicurezza fornendo comunque uno stimolo allenante, perché, che dir si voglia, arrivare in prossimità del cedimento muscolare rende una serie, anche se a buffer, comunque ostica.
Infatti, torniamo alla scala RPE, una serie di squat in RPE9 è percepita quasi come una serie protratta al cedimento, quando arrivi in un esercizio come questo a quelle ripetizioni che iniziano ad essere lente e ostiche sembrerà di essere arrivato al limite, anche se non è realmente così, altro motivo per cui è altamente sconsigliato applicare il cedimento su un esercizio come questo, se quelle risultano così ostiche figuriamoci se portate a reale cedimento.
Il cedimento invece è un’ottima arma per aumentare l’intensità riducendo anche il volume di una seduta e permette di sfinire tutte le fibre muscolari interessati, infatti, molto spesso i primi sets di un esercizio sono eseguiti in buffer e sono preparatori all’ultimo che è il vero e proprio set allenante.
Ovviamente quelli prima non servono solo a questo, ma bensì, generano un accumulo di lavoro non indifferente e che porta ipertrofia, permettendoci però di avere la massima resa nell’ultimo set.

Sono due fattori che vanno regolati anche il base al volume utilizzato, oltre che agli esercizi, in quanto, un allenamento a basso volume presenterà sicuramente un grado di intensità più elevato essendo minore lo stress che arreca a livello sistemico, al contrario, un programma ad alto volume presenterà molte più serie a buffer, in quanto, troppi sets portati a cedimento porterebbe a quello che viene chiamato “junk volume”, il cosiddetto volume spazzatura, quel volume che fai perché lo trovi scritto in scheda ma che di per sé risulta quasi inutile, in quanto, per la stanchezza accumulata, l’intensità espressa è sempre inferiore a quella richiesta.

QUANDO IL BUFFER E QUANDO IL CEDIMENTO SONO CONTROPRODUCENTI?

Bisogna sempre tenere in considerazione il soggetto che abbiamo di fronte quando decidiamo di utilizzare serie a cedimento o a buffer, perché la modalità con cui si approccia al carico potrebbe rendere, non solo inefficace, ma anche controproducente l’utilizzo dell’una o dell’altra metodologia.
Prendiamo per esempio un neofita o l’utente medio in sala pesi che termina la serie con un margine ampissimo prima di aver raggiunto un grado di fatica considerabile almeno allenante.
Applicare su un soggetto del genere delle serie a buffer, considerando che per codardia o pigrizia, questo eseguirà già le serie in buffer, porterà a dei sets non solo non allenanti, ma proprio deallenanti!

Esempio: Entra in sala pesi un ragazzo che già fin dall’inizio della seduta risulta svogliato e sembra faticare anche nel riscaldamento, verrà da sé che terminerà ogni serie appena percepisce del bruciore rimanendo però fresco come una rosa.
Ecco, se andassimo ad inserire delle serie a buffer, trasformeremmo le serie che lui considera a cedimento e sono un probabile rpe 8/7 in serie con un rpe 5/6, cosa che se andiamo a far saltare i sassi al lago in acqua lo sforzo è più intenso.

Il cedimento invece dovrà essere dosato quando ci si trova di fronte un soggetto diametralmente opposto al primo, il classico bro da palestra che tira ogni serie alla morte fregandosene altamente di svolgere un lavoro corretto pensando solo ai kg spostati.
In questo caso sarà opportuno limitare il grado di cedimento e costringerlo a delle serie a buffer o quantomeno vicine al buffer, così che possa ricercare un maggior carico interno ed allenare il muscolo oltre che l’ego.
Si potrebbe anche optare per inserire anche dei TUT più lunghi, in modo tale da costringerlo ad un lavoro muscolo centrico e limitare i carichi spostati in modo goliardico.

CONCLUSIONI

Il buffer non è superiore al cedimento muscolare come questo non lo è al buffer, ma sono entrambi due fattori che se utilizzati con cognizione di causa permettono di ottimizzare una programmazione.
Va sempre tenuto in considerazione il volume utilizzato e la scelta degli esercizi per valutare come e quale utilizzare, ma soprattutto che tipo di atleta ci si para di fronte, in quanto le modalità con cui questo si approccia ai pesi attribuiranno o meno una connotazione totalmente differente al programma da svolgere.
Quindi utilizzateli entrambi e trovate anche ciò che si presta meglio alle vostre esigenze, senza però aver paura di uscire dalla propria zona di confort.

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METODOLOGIA POF

Il POF (position of flexion training) è una metodica di allenamento ideata da Steve Holman e diffusa nel 2001 e prevede di colpire il muscolo bersaglio da angolazioni differenti, in modo tale da regalare il medesimo lavoro alle a tutte le fibre che intervengo nell’intero ROM, dal massimo allungamento, al massimo accorciamento, così da lavorare il muscolo in tutta la sua interezza e garantirne uno sviluppo/stimolo completo.
Per permettere ciò, Steve Holman infatti specifica di utilizzare più di un esercizio per il gruppo interessato, in quanto, tutti presentano il picco di massima contrazione in punti differenti del ROM, con conseguenti, diminuzione di tensione e/o punti morti nell’arco di movimento e di conseguenza non sarebbe possibile fare ciò utilizzando un solo esercizio per gruppo muscolare.
Infatti il POF scompone il ROM in porzioni più piccole, che andranno colpite con esercizi differenti, scegliendoli in base al punto in cui presentano il picco di massima contrazione, ad esempio un curl su panca 45 gradi permetterà di colpire la porzione in allungamento dei bicipiti, in quanto pone l’omero in estensione e quindi il bicipite in allungamento.
La metodologia propone di cominciare la seduta con un esercizio che presenta il punto di massimo lavoro nella porzione del ROM intermedia del muscolo interessato, seguito poi da un esercizio che lavora in massimo allungamento per poi arrivare a quello che lavora in massimo accorciamento.

PORZIONE INTERMEDIA

Come già accennato sopra, Steve Holman, consiglia di cominciare la seduta con un esercizio che presenti il massimo lavoro nella porzione intermedia del ROM.
Quelli che presentano lavoro principalmente in questa porzione di ROM sono solitamente i multiarticolari, come ad esempio french press, curl con bilanciere, panca piana, ecc.
Sono anche gli esercizi che permettono di utilizzare il maggior carico possibile, in quanto, per il diagramma di tensione/lunghezza, un muscolo è in gradi di esprimere al massimo la sua forza quando si trova ad un allungamento ideale, cosa che questi permettono, se pensiamo ad esempio ad un curl per bilanciere, il muscolo non è posto né in accorciamento, né in allungamento.
Questa è infatti anche una delle motivazioni per cui Holman predilige cominciare la seduta così, in modo tale da poter eseguire lavori con stimolo meccanico e per farlo essere “freschi” è la cosa migliore, in modo tale da potersi esprimere al massimo sotto carico, ricordiamoci che per ottenere uno stimolo completo è importante anche utilizzare range di ripetizioni differenti.
Per questo esercizio è infatti consigliato:

  • Un range tra le 2 e le 6 ripetizioni.
  • Un range di serie piuttosto elevato, dalle 4 alle 8.
  • Impostare delle progressioni di carico.
  • Utilizzare recuperi medio lunghi, così da dare il tempo all’SNC di potersi esprimere al meglio nuovamente.
  • Evitare il cedimento muscolare, sia per poter progredire che evitare il rischio di infortuni.

PORZIONE IN MASSIMO ALLUNGAMENTO

La scelta del secondo esercizio, come detto sopra, cade su schemi motori che prevedano appunto il massimo lavoro nella porzione in allungamento.
Per fare ciò si utilizzano solitamente esercizi monoarticolari, in quanto il lavoro di forza/con stimolo meccanico, è già stato eseguito, ora è il momento delle “rifiniture”.
Infatti, il fine dell’esercizio in questo caso sarà il danno muscolare e non la progressione sui carichi, oltre che un miglior reclutamento e maggior lavoro delle fibre che intervengono nella porzione del ROM in allungamento.
Per questo esercizio è consigliato:

  • Range di serie medio-basso tra le 3 e le 5.
  • Intensità di carico non elevata in quanto questa porzione del ROM è molto delicata e vi è il rischio di infortunarsi.
  • Range di ripetizioni medio-alto, tra le 8 e le 12.
  • Recuperi medio-bassi, 60-90”.
  • Movimento fluido a cui si può aggiungere un breve fermo a fine eccentrica per enfatizzare maggiormente il lavoro in allungamento.
  • Cedimento nell’ultimo/ultimi set.

PORZIONE IN MASSIMO ACCORCIAMENTO

La scelta qui ricade, per concludere, in un esercizio che presenti il massimo lavoro nella porzione in accorciamento, utilizzando sempre monoarticolari in cui la ricerca dell’incapacità muscolare nei vari set è un must, possibilmente utilizzando esercizi che non presentino punti morti in tutto il ROM attivo, infatti tornano molto utili i macchinari ed i cavi.
Per questo esercizio è consigliato:

  • Un range di ripetizioni medio-alte 15-20
  • Un range di serie medio-basso 2-4
  • Esercizi monoarticolari e macchinari/cavi
  • Ricercare il cedimento muscolare
  • Utilizzare un TUT fluido durante l’esecuzione
  • Recuperi piuttosto brevi 45-75”

ESEMPIO:

Prendiamo in esempio i bicipiti per capire meglio che esercizi, serie e ripetizioni utilizzare in base a quanto indicato con questa metodologia:

  • Curl con bilanciere 5×5, ramping, recupero 120”, TUT FLUIDO, RPE 8-8-8-8-9
  • Curl manubri su panca 45 gradi con omero leggermente flesso 4×12-8, recupero 90”, TUT 1-1-1-0, RPE 8-9-10-10
  • Curl manubri su panca scott 3×20-15, recupero 60”, TUT FLUIDO, RPE 10-10-10

Il primo esercizio presenta uno stimolo meccanico/neurale con sovraccarico progressivo ed una scala RPE che permette un lavoro a buffer, ma comunque con carichi sub-massimali ed è appunto l’esercizio che presenta il massimo lavoro nella porzione intermedia del ROM.
Il secondo utilizza degli RPE più elevati sfruttando appunto un monoarticolare che presenti il massimo lavoro nella porzione in allungamento, il tutto enfatizzato dal fermo in tensione a fine eccentrica.
Il terzo ed ultimo esercizio è appunto un altro monoarticolare che presenta il range di ripetizioni e gli RPE più alti ed il massimo lavoro nella porzione in accorciamento.

CONCLUSIONI

È una metodica molto interessante e che presenta molti aspetti positivi, dal fatto che sia adatta a tutti, al fatto che permetta di colpire il muscolo da più angolazioni dando così uno stimolo completo, presenta però comunque qualche pecca, come il fatto di non tener conto del maggior lavoro richiesto dai gruppi grandi rispetto a quelli piccoli e in alcuni casi i muscoli posturali non andrebbero allenati in massimo accorciamento/allungamento, (per capire il motivo visionare la legge di Borelli Weber Fick).

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SCHIENA: ANATOMIA E ALLENAMENTO

I muscoli della schiena ricoprono interamente la parte posteriore del tronco e sono composti da differenti strati, come le cipolle, cavolate a parte, sono composti da uno strato superficiale, uno intermedio ed uno profondo.
In questi tre strati si trova i gruppi muscolari che tutti conosciamo, dal gran dorsale all’elevatore della scapola.

Lo strato superficiale è composto dai fasci muscoli che influenza maggiormente la resa estetica del dorso, tra cui troviamo:

-Il gran dorsale, che è uno dei muscoli più estesi del corpo umano e infatti presenta diverse origini e viene diviso in quattro porzioni ben distinte:

  • parte vertebrale con origine a livello dei processi proni dalla settima alla dodicesima vertebra toracica;
  • parte iliaca con origine dalla fascia toracolombare e dalla cresta iliaca;
  • parte costale con origine dalla decima alla dodicesima costa;
  • talvolta come parte scapolare con origine a livello dell’angolo inferiore della scapola.

Nonostante ciò però trova inserzione in un solo punto, a livello della cresta del tubercolo minore dell’omero.
Presenta numerose funzioni dal punto di vista anatomico:

  • Adduce, estende ed Intraruota l’omero.
  • Estende il tronco .
  • Antiverte il bacino.
  • Deprime le scapole.

-I romboidi che sono localizzati al centro della schiena, i quali si proiettano dal margine mediale della scapola fino alle vertebre cervicali basse e toraciche alte.
Permetto di avvicinare tramite adduzione le scapole alla colonna e sono stimolati negli esercizi di tirata, remata e arrampicata come sinergisti del gran dorsale.

-Il trapezio che si compone di tre differenti fasci:

  • Superiore
  • Intermedio
  • Inferiore

Ricopre la porzione alta della schiena trovando origine a livello della nuca, della cervicale e delle vertebre toraciche.
Lavora a livello scapolare e cervicale, è proprio grazie a ciò che permette alla scapola di muoversi.

-Il dentato anteriore che è un muscolo appartenente al complesso della muscolatura scapolo-toracica.
origina con 9-10 digitazioni dalla prima fino alla nona costa e decorre anteriormente alla scapola, fino ad inserirsi lungo tutto il margine mediale della scapola stessa, dall’angolo superiore fino a quello inferiore. 
Suddivide il gran dentato in tre porzioni distinte che possiedono funzioni anatomiche differenti in base all’orientamento delle fibre.
Ha la funzione di far aderire la scapola al torace. Tale funzione è svolta in sinergia con i muscoli romboidi e trapezio.
Il gran dentato, inoltre, possiede importanti funzioni a livello scapolare:

  • Con la sua porzione superiore protrae la scapola;
  • Con la porzione intermedia protrae, tilta posteriormente e ruota cranialmente la scapola (la glena ruota verso l’alto);
  • Con la porzione inferiore protrae, tilta posteriormente e ruota cranialmente la scapola.

-L’elevatore della scapola origina dai processi trasversi delle prime quattro vertebre cervicali e si inserisce a livello dell’angolo superiore della scapola e proprio per questo possiede numerose funzioni:

  • A livello della cervicale determina un movimento di rotazione omolaterale, di estensione e di inclinazione omolaterale.
  • A livello scapolare, invece, determina un movimento di depressione, rotazione caudale e lieve retrazione. 

-Il quadrato dei lombi è un muscolo localizzato dal bacino all’ultima costa e alle vertebre lombari, che ha la funzione di estendere e inclinare la colonna. 
È un muscolo in grado di estendere il tratto lombare e giocare un ruolo fondamentale nella gestione dell’inclinazione laterale del tronco.

ESERCIZI PER ALLENARE LA SCHIENA

Come abbiamo già visto, la schiena, a dispetto di altri distretti muscolari è molto complessa e composta da molteplici muscoli.
Per scegliere gli esercizi bisogna tenere in considerazione le funzioni anatomiche dei molteplici muscoli che compongono la schiena…
Come abbiamo già visto, gran dorsale e grande rotondo che svolgono movimenti di adduzione/estensione dell’omero, questi muscoli donano ampiezza alla schiena che contribuisce a portare il tanto amato V shape.
Dopo di che abbiamo trapezio e romboidi che fungono da adduttori e stabilizzatori delle scapole.
Il deltoide posteriore che abduce, estende ed extraruota l’omero.
Per finire gli erettori spinali che estendono e stabilizzano la colonna andando a regale spessore.

Nelle sessioni di dorso si vanno ad utilizzare maggiormente esercizi per i dorsali in quanto permettono di utilizzare carichi elevati, mentre gli erettori spinali lavorano già molto con esercizi utilizzati nelle sessioni di lower quali: squat e stacchi.
Per quanto concerne gli adduttori, gli esercizi specifici vengono visti più come complementari.

COME SCEGLIERE GLI ESERCIZI

Considerando quanto detto fino ad ora, andremo a scegliere gli esercizi consapevolmente, bisogna, come già detto, tenere in considerazione la funzioni anatomiche dei vari fasci muscolari, così da capire che esercizi utilizzare in base ai movimenti che permettono di compiere.
Essendo gli esercizi principali a carico del dorsale e considerando che questo ha la funzione di addurre ed estendere, già inserendo due esercizi che presentino, il primo uno schema motorio con adduzione ed il secondo, con estensione dell’omero, o viceversa, andremo a svolgere già un lavoro piuttosto completo su questi fasci, senza considerare che in questo caso avremo anche una forte stimolazione del grande rotondo.

Un’altra cosa, molto importante, da tenere in considerazione, è quella di segmentare le varie porzioni del dorso da lavorare, utilizzando quindi esercizi che vado a presentare il picco di massima contrazione in punti differenti del ROM, quindi, sia in contrazione, che in accorciamento.
Questo perché il dorso è gruppo muscolare veramente vasto e di conseguenza, è difficile dare una tensione uniforme lungo tutti i punti del ROM, infatti molti esercizi presentano tensione poco uniforme, talvolta con cambi repentini.
Quindi scegliere esercizi differenti per dare lo stesso lavoro a tutti i fasci presenti a livello dorsale sarà fondamentale per ottenere uno stimolo completo e non lasciar “deallenate” alcuni fasci muscolari.

Quindi, come già detto gli esercizi verranno scelti in base alle funzioni dei vari gruppi muscolari.
Gli esercizi principalmente a carico di gran dorsale e gran rotondo (gli esercizi che presentano adduzione ed estensione dell’omero) e che sono anche gli unici che personalmente utilizzo per allenare il dorso sono:

-Rematore
-Pendlay row
– Lat machine o trazioni con differenti prese
-Pull down al cavo alto.

Esercizi per adduttori ed elevatori delle scapole:

-Rematore con bilanciere
-Pendlay row
-Pulley presa larga
-Aperture posteriori e varianti
-Face pull
-Scrollate per il trapezio, personalmente le inserire solo in caso di carenza per quanto concerne questo gruppo muscolare.

Erettori spinali:

-Stacchi in tutte le salse
-Hyperextension
-Bent over row
-Good morning

VOLUME DA UTILIZZARE

Il dorso, come qualsiasi altro gruppo muscolare, per quanto concerne il range di ripetizioni da utilizzare, necessità, per un lavoro completo, di molteplici range di ripetizioni, dalle 4, addirittura, fino alle 30.
Questo perché per dare uno stimolo completo ci vogliono sia lavori con stimolo meccanico che ipertrofico, quindi una buona idea potrebbe essere quella di adottare un hatfield partendo con esercizi a reps basse e salendo man mano che si prosegue con l’allenamento, oppure un P.H.A.T. inserendo due sedute, una con range di ripetizioni più alte, come stimolo metabolico ed una con range di ripetizioni più basse con stimolo meccanico.

Per quanto concerne invece il volume da utilizzare, seguendo le linee guida sarebbero consigliati dai 18 ai 24 sets settimanali.
Ovviamente questi sono numeri da prendere con le pinze, il volume è sempre soggettivo e quello ideale è quello che permette di avere una crescita sul gruppo interessato.
Quindi, partendo da questo numero di serie settimanale si può provare a ridurre o aumentare a seconda degli effetti che vanno a generare.
Per quanto invece concerne la frequenza di allenamento settimanale, teoricamente, se il volume è adeguato non vi dovrebbero essere grandi differenze tra una o più sedute nell’arco della settimana.
Questo torna utile più che altro per aumentare il volume settimanale, in quanto, il volume utilizzabile in una singola seduta, prima di cadere nel classico volume spazzatura è limitato, più viene protratta una seduta di allenamento e più aumentano cortisolo e stress a livello sistemico.
In questo caso splittare il volume su più giorni potrebbe essere un’arma vincente per ottenere una resa migliore.

ERRORI PRINCIPALI NELL’ALLENAMENTO PER LA SCHIENA

La schiena è piuttosto ostica da allenare per molto, in quanto è difficile percepirla a dovere e di conseguenza si tende ad incappare in alcuni errori involontari…
Uno di questi è l’eccessivo coinvolgimento dei bicipiti, i quali intervengono facilmente nelle tirare per il dorso, visto che in quasi tutti gli esercizi bene o male è presente flessione del gomito.
Uno stratagemma per ovviare a ciò può essere una classica presa con pollice anteposto o la pistol grip, riducendo la tensione scaricata nella porzione della mano verso il pollice si riduce drasticamente il coinvolgimento del bicipite, in quanto è meno enfatizzato il lavoro di flessione a carico di questo.
Un’altra ottima strategia è quella di considerare le mani e l’avambraccio come un gancio appeso ad una corda che non tira ma tiene solo il carico mentre il movimento viene guidato dal gomito.
La seconda difficoltà che si incontra maggiormente è il controllo delle scapole, è difficile capire che prima di iniziare la fase concentrica le scapole devono essere depresse, altrimenti ciò porterà a compensi inutili e controproducenti.
Per imparare a fare ciò è ideale, prima di iniziare ogni fase di tirata, deprimere le scapolo e poi partire col movimento.

CONCLUSIONI

La schiena è veramente difficile da saper allenare e allenare in modo completo essendo un gruppo muscolare così vasto e che non abbiamo la possibilità di vedere, per cui di conseguenza facciamo fatica a percepire.
Sarà quindi fondamentale impostare un allenamento ben strutturato scegliendo esercizi che non necessitino di essere cambiati di frequente, così che lo schema motorio venga appreso al meglio e di conseguenza si arrivi ad una resa maggiore.

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TECNICHE AD ALTA INTENSITÀ

Le tecniche ad alta intensità fanno parte del bodybuilding ormai da svariati anni, prendono auge col bodybuilding old school ai tempi di Arnold o Zane.
La loro nascita va attribuita al famoso “no pain no gain”, si ricercava costantemente l’esaurimento muscolare, di andare oltre i propri limiti…
Col tempo però l’abuso è diminuito, purtroppo o per fortuna, in quanto in ambito natural non è possibile utilizzarle sempre su ogni set, pena la frittura del nostro SNC (sistema nervoso centrale).
Il termine intensità nel bodybuilding assume due connotazioni differenti:

-Intensità intesa come INTENSITÀ DI CARICO: ovvero l’intensità oggettiva del carico utilizzato in rapporto al nostro 1RM su quell’esercizio.

-Intensità intesa come INTENSITÀ PERCEPITA: ovvero l’intensità che l’atleta percepisce, il cosidetto carico interno.

È la seconda connotazione quella per cui viene attribuito l’appellativo di “tecniche di intensità” a queste metodiche.
Questo perché l’utilizzo di tecniche che aumentino l’intensità percepita porta appunto a rendere, detto alla buona, i set molto più intensi aumentando la densità della seduta.
Qui si apre un mondo soggettivo e poco misurabile, in quanto ciò è dovuto perché sta all’atleta regolarsi sulla base del lavoro che deve eseguire e la resa non sarà mai uguale da atleta ad atleta, basti pensare ad un banale 4×8, c’è chi si porrà verso le serie in modo aggressivo portandole al cedimento e chi, nonostante sia convinto di arrivare all’esaurimento muscolare invece affronterà la serie come fosse un rpe 9, o addirittura 8.              
Qui infatti l’intensità, per quanto possibile sarà misurata, da tempi sotto tensione in primis, velocità di movimento, contrazioni di picco, da varie tecniche d’intensificazione e non di meno dai tempi di recupero, i quali determineranno anche la densità del nostro allenamento.

Le tecniche di intensità tornano utili come assi nella manica da giocare durante la propria programmazione annuale, in quanto, come vengono periodizzati lavori neurali, meccanici e metabolici, anche l’utilizzo di queste va periodizzato.
Infatti torneranno utili per dare stimoli differenti o superare uno stallo, o ancora per insegnare cosa significhi esprimere intensità.

TECNICHE DI INTENSITÀ

Esistono molteplici tecniche di intensità, solo alcune però sono codificate e conosciute, molte sono solo frutto della fervida fantasia dell’ideatore stesso.

REST PAUSE

Una delle mie preferite, consiste nel proseguire con la serie una volta arrivati a cedimento durante la fase concentrica con altri microset a loro volta protratti a cedimento, intervallati da brevi pause di 10/30 secondi, mantenendo il carico invaritato.

La quantità di microset da eseguire dopo essere arrivati a cedimento con la serie effettiva varia a seconda della quantità di lavoro che si vuole accumulare.

Tecnica che torna utile se inserita nell’ultimo set dell’esercizio target, in quanto, per il grado di cedimento richiesto non sarebbe possibile utilizzarla su tutti gli esercizi.

TUT

TUT sta per tempo sotto tensione, ovvero la durata della serie ed è costituito dal totale dei secondi richiesti per eseguire sia la fase eccentrica che concentrica di una ripetizione, moltiplicato poi per il numero di ripetizioni.
Giocare col TUT è una delle tecniche che presenta più sfaccettature, in quanto possiamo utilizzare tempi totalmente differenti.

Ad esempio: 3-1-1-0, 4-2-1-0, 3-0-3-0 e via dicendo, vi sono centinaia di possibilità.

Questa tecnica torna utile per aumentare la densità, o anche per insegnare il controllo del gesto ad atleti novizi o intermedi che non hanno piena padronanza del carico, per non parlare poi della possibilità di ridurre/annullare il riflesso miotatico aggiungendo dei fermi più o meno lunghi a fine eccentrica.
Utilissimo anche da inserire su esercizi in cui si fatica a percepire il muscolo target.

SUPER SET

I super set consistono nell’eseguire due esercizi di seguito senza recupero tra questi e può essere eseguito sia unendo esercizi per muscoli antagonisti che per il medesimo gruppo muscolare, questi ad essere precisi prendono il nome di set composti, ma ormai vengono inseriti entrambi nella categoria super set.
I super set in cui si utilizzano muscoli antagonisti tornano utili per ridurre la durata della seduta aumentandone l’intensità ed evitando che vi sia comunque un calo nella performance, infatti trovano spazio anche in contesti di ipocalorica in quanto permetto di avere un dispendio maggiore.
In contesti di bulk invece saranno utili per veicolare le calorie alte a cui solitamente ci si trova.

GIANT SET

Si presentano come i super set o set composti, con l’unica differenza che questi prevedono l’esecuzione in serie di 3 o più esercizi, in sostanza l’estremizzazione dei suoi cugini.

J REPS

Le serie in J reps consistono nel dividere il ROM da utilizzare in due o massimo tre porzioni, andando a lavorare prima nella porzione di ROM che presenta maggior tensione, la quale partirà da inizio o metà ROM a seconda dell’esercizio, per poi continuare con la metà di ROM mancante.
Il range di ripetizioni in cui si lavora solitamente va dalle 20 alle 30.
Poniamo il caso di aver scelto un 20 reps target su un esercizio come la distensioni con manubri su panca a 80 gradi, prima eseguiremo 10 ripetizioni da inizio ROM fino a metà e poi da metà fino alla fine, in quanto la porzione più ostica è quella che presenta allungamento.
Le prime 10 ripetizioni dovranno terminare vicino al cedimento, in caso così non fosse, significherà che il carico utilizzato è troppo basso.

STRIPPING

Lo stripping, come per il resto pause, consiste sempre nel protrarre la serie oltre il cedimento, con l’unica differenza che per i microset successivi a quello in cui si raggiunge il primo cedimento concentrico, questi subiranno una diminuzione del carico del 10/20% senza utilizzare brevi recuperi.
È una tecnica che conviene utilizzare su esercizi in cui è possibile cambiare facilmente e rapidamente il peso per non perdere troppo tempo tra ogni microset.

PRE STANCAGGIO

La tecnica del pre stancaggio si basa sull’utilizzo di esercizi analitici (complementari) prima di un esercizio multiarticolare, così da affaticare il muscolo interessato.
Può essere fatta nella versione anche per stancare i muscoli sinergisti che, spesso, per cause antropometriche o di attivazione, diventano dominanti o primi motori in un determinato esercizio, impedendo al soggetto di far ricadere lo stress desiderato sui muscoli desiderati, pregiudicandone il potenziale di sviluppo.

Tipico esempio sono le croci con manubri svolte in un range di ripetizioni medio (da 6 a 12), anteposte alla panca piana che viene svolta in un range variabile, a seconda dei fini. 

LAVORO DI SOLA ECCENTRICA

Fare le ripetizioni negative pone come finalità quella di aumentare lo stress meccanico indotto da una serie con carichi rilevanti.
Inoltre aumenta per forza di cose la quantità di volume svolto con un dato carico ed una data intensità.
Una vota giunti al cedimento muscolare e con l’aiuto di un partner, si porta a termine solo la fase eccentrica dell’esercizio, in quanto durante la fase concentrica si verrà aiutati dal simpatico amico.
Vanno eseguiti con l’aiuto di un partner in quanto l’allenamento (o le serie) è basato solo sull’esecuzione della fase eccentrica, con la fase concentrica eseguita dallo spotter.

RIPETIZIONI FORZATE

Le ripetizioni forzate richiedono come per i lavori di sola eccentrica un partener, in quanto, una volta arrivati al cedimento la serie va protratta oltre con un aiuto per completare la fase concentrica delle ripetizioni successive.

PEAK CONTRACTION

La contrazione di picco consiste nel mantenere, per qualche secondo, la contrazione isometrica al termine dello svolgimento di una contrazione dinamica.

La finalità di questa tecnica è quella di aumentare la quantità di fibre reclutate durante la contrazione dinamica, visto che la forza isometrica è superiore a quella dinamica di circa un 10% e visto che si cerca di ingannare il sistema nervoso facendogli credere di trovarsi di fronte a un carico inamovibile.

RIPETIZIONI PARZIALI

Consiste nell’eseguire solo una porzione del movimento (quella che presenta la minor tensione) una volta raggiunto il cedimento concentrico nella serie.

CHEATING

Il cheating è una delle tecniche più rozze che esistano, che troppo spesso è utilizzato anche senza volerlo o saperlo. Consiste nell’aiutarsi a fare qualche ripetizioni in più tramite piccoli slanci o spinte durante l’esecuzione di un esercizio. L’errore più comune è quello di applicare questa tecnica sin dalla prima ripetizione.
Viene utilizzata di frequente da molti bodybuilder professionisti.

SERIE A 21

Consistono nel dividere il rom in due porzioni ed eseguire prima 7 ripetizioni nella porzione più ostica, poi 7 in quella più semplice e poi 7 complete.

SERIE INTERROTTE

E’ un ulteriore variante delle tecniche che prevedono l’interruzione del lavoro durante le serie, che prevede la sollecitazione e la quasi totale o totale deplezione dei fosfati energetici (sistema ATP/CP), con l’intervento non massiccio del sistema lattacido, cosa che ci permette di mantenere ancora alta l’intensità allenante.

L’ideatore delle serie interrotte è Filippo Massaroni, consiglia di utilizzare un’intensità di circa l’80% rispetto al massimale ed eseguire con questa intensità 5 ripetizioni (lasciando quindi un ampio buffer), recuperare 15-20’’, compiere un’altra serie da 5 ripetizioni, di nuovo recupero, nuova serie ancora da 5 ripetizioni portata ad esaurimento, di nuovo recupero e compiere un’ultima serie o con lo stesso carico o riducendolo quanto basta, raggiungendo l’esaurimento muscolare.

Ne uscirà un 5×5 + 4 ripetizioni finali, fatto con un carico col quale si cederebbe all’ottava ripetizione ma con un breve tempo di recupero tra le serie.

CLUSTER SET

Il cluster set è una tecnica di intensità simile ma non uguale al rest pause. Essa consiste nell’utilizzare carichi che vanno da circa l’85% dell’RM a poco più del 90%, un numero di ripetizioni prestabilito (singole e cosi via a carichi elevatissimi e più ripetizioni a carichi medi), recuperi brevissimi tra le ripetizioni (da 20’’ a 40’’)  e più lunghi tra i sets (180’’), per più volte ( 2-3 rounds o sets).

CONCLUSIONI

Queste sono la maggior parte delle tecniche di intensità più conosciute ed utilizzate nel bodybuilding.
Come già detto, tornano utili se il loro uso non diviene abuso ma resta contestualizzato e periodizzato in modo corretto.
Siamo fatti per reggere alto volume se correttamente condizionati, il problema però è appunto l’intensità, per questo motivo non bisogna abusare delle suddette tecniche.
L’intensità è in grado di rompere l’omeostasi organica più di ogni altro stimolo.
La rompe a tal punto che spesso non siamo in grado di determinarne i tempi e le modalità di recupero, e questo perché ci si abitua e ci si condiziona soltanto “relativamente” all’intensità.
Non sempre il nostro corpo necessita dello stesso recupero, in quanto questo è influenzato da stressor esterni, quali la dieta, il sonno, il lavoro e via dicendo, quindi uno stimolo sovramassimale se non periodizzato potrebbe portare ad uno stallo o addirittura al sovrallenamento.
Quindi, queste tecniche vanno viste come un extra da inserire nel protocollo e non un must.

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PARAMETRI DELL’ALLENAMENTO NEL BODYBUILDING

Come nella dieta, così nell’allenamento, è fondamentale sapersi giostrare coi numeri, i numeri dei parametri da tenere in considerazione quando si prepara un protocollo per la sala pesi.
È fondamentale per un buon trainer saper programmare e per fare ciò è importante conoscere i parametri allenanti, saperli gestire e contestualizzare in base agli obietti.
Questo serve per rendere un programma efficace, portare ogni serie all’incapacità muscolare, o utilizzare troppo volume, o troppe tecniche che aumentano la densità si tradurrà in un allenamento in cui dopo i primi esercizi, in una seduta piena di “junk volume”, in quanto buona parte dell’allenamento presenterà un gradi di intensità irrisorio.
I numeri e le sigle che si vedono normalmente in una scheda, come questi ad esempio:

4×8-10 con 11-12RM, 90” rec, TUT 3-1-1-0

Sono solo decodificazioni di un codice dettato dalla gestione dei parametri sopra citati.

I parametri da tenere in considerazione sono:

-Volume

-Intensità

-Densità

Ne esistono altri, ma questi tre sono sicuramente i più importanti.
Facciamo una piccola premessa, non si può progredire con tutti questi parametri insieme, ma va impostata una periodizzazione in cui si dà prevalenza a lavori ad alto volume, o alta intensità, o alta densità.
Un aumento esagerato di tutti e tre porterà solo ad un programma fallimentare, il corpo ha un limite purtroppo.
Ora vediamo cosa sono esattamente.

VOLUME

Rappresenta la mole di lavoro totale svolta nell’intera seduta di allenamento, nel powerlifting viene calcolato considerando anche il carico utilizzato e ad essere precisi viene chiamato tonnellaggio, ma in ambito culturistico possiamo relegarlo ad un calcolo più semplice, in quanto vi sono molte più variabili da tenere in considerazione e non sarebbe possibile tener conto di tutte, per questo esistono gli altri due parametri.
Come ad esempio il TUT, ovvero la velocità di esecuzione del gesto, o il ROM utilizzato, ovvero la distanza percorsa dal carico, verrà da sé che compiere un movimento lento spostando il carico per 50cm avrà un impatto diverso dal muoverlo in modo frettoloso per 30cm.

Quindi teniamo in considerazione solo serie e ripetizioni, ottenendo così questa formula:

Volume = Serie per gruppo muscolare X Ripetizioni per gruppo muscolare

Esempio:
Seduta di petto con 2 esercizi da 5 serie l’uno e 10 ripetizioni a serie
5X10 + 5X10 = 100

Ricordatevi però che talvolta, (nei multiarticolari solitamente) un muscolo può essere allenato indirettamente, come ad esempio i bicipiti nelle trazioni.
In questo caso basterà utilizzare la stessa formula vista in precedenza e dividere per due.
Facciamo finta che prima quei due esercizi fossero entrambi delle spinte su panca in cui interviene anche il tricipite, avremo quindi:

Volume = (Serie per gruppo muscolare X Ripetizioni per gruppo muscolare) /2

(5×10 + 5×10)/2 = 100/2 = 50

Il volume per i tricipiti in questo caso sarebbe di 50 reps.

DENSITÀ

Per quanto concerne la densità, è fondamentale tenere in considerazione il TUT (time under tension), ovvero il tempo in cui il muscolo è sottoposto a tensione, quindi tutto il tempo impiegato per completare la serie.
Il TUT viene scandito da 4 numeri nelle schede che stanno ad indicare il tempo della durata di ogni fase della ripetizione:

X-X-X-X

-il primo numero indica il tempo della durata della fase eccentrica

– il secondo numero indica il tempo di permanenza nel punto di massimo stretch muscolare possibile alla fine della fase eccentrica

-il terzo numero indicata la durata della fase concentrica

– il secondo numero indica il tempo di permanenza nel punto di massimo accorciamento muscolare possibile alla fine della fase concentrica.

Quindi un TUT come ad esempio quello che sono solito far utilizzare in alcuni esercizi di 3-1-1-0 sta ad indicare una fase eccentrica di 3 secondi, un secondo di fermo a fine dell’eccentrica in allungamento, una fase concentrica di 1 secondo e 0 secondi di fermo a fine della fase concentrica.

Ora che abbiamo chiaro ciò possiamo parlare di densità, che in sostanza è il rapporto tra tempo sotto tensione (TUT) in allenamento e la durata dell’allenamento stesso ed esistono due tipi di densità:

-Locale

-Sistemica

La densità locale è data da: TUT PER GRUPPO MUSCOLARE/ DURATA DELL’ALLENAMENTO

Quindi se ad esempio per il dorso abbiamo una seduta da 60 minuti e 20 serie da 10 ripetizioni e 3 avremo:

TUTserie= Reps x TUT = 10×3 = 30S

TUTtotale= serie x TUTserie = 20×30 = 600S = 10 minuti

Quindi la densità locale sul dorso sarà:

DL = 10/60 = 0,16 = 16%

Per quanto concerne invece la densità sistemica avremo:

Densità sistematica = TUT totale/ durata allenamento

Se in una seduta di allenamento andiamo a lavorare bicipiti e tricipiti con 3 serie ciascuno da 10 ripetizioni, un TUT di 3” a serie, 1’ di recupero tra ogni serie ed una durata totale dell’allenamenti di 15 minuti avremo così:

TUTserie = reps x TUT = 10×3 = 30S

TUTtotale = SERIEtotali X TUTserie = 6×30 = 180S = 3 minuti

Quindi la densità sistemica del lavoro svolto sarà pari al 20%:

DS = 3/15 = 0,2 = 20%

Conoscendo come calcolare questo parametro sarà ora possibile giocarci per aumentare o diminuire la densità.
Per esempio, nel caso volessimo aggiungere dei super set per aumentarla mantenendo stesse serie e ripetizioni, ci ritroveremo con una durata della sessione nettamente inferiore, in quanto il tempo di
recupero sarebbe dimezzato.
Considerando che la serie durava 30 secondi, la durata attuale sarà di 1 minuti al posto dei 30 secondi precedenti utilizzando dei super set, però, così facendo, andremo a recuperare passivamente solo 30 secondi, questo perché gli altri 30 saranno sempre di recupero, ma attivo!
In questo modo a livello locale non vi è differenza, ma a livello sistemico cambia, avremo una densità raddoppiata in quanto presenteremo lo stesso volume ma la metà del tempo di lavoro necessario.

INTENSITÀ

Esistono due tipologie di intensità:

-Intensità percepita

-Intensità di carico


Il grado di intensità percepita o RPE (rate of perceived exertion) viene calcolata in base alla percezione dello sforzo che l’atleta ha durante la serie.
Può risultare imprecisa come stima, in quanto un atleta non avanzato talvolta potrebbe percepire come rpe10 un rpe9 o addirittura un 8/7 in caso di principianti.
Calcolarlo è semplice, basta fare una media tra tutti i gradi di intensità da utilizzare e dividerlo per il numero di serie, se ad esempio eseguiamo 3 serie con rpe crescente di serie in serie (ad esempio 8-9-10) avremo così:

RPEmedio = (8+9+10)/3 = 27/3 = 9

Quindi un grado di intensità medio pari a 9

Per quanto concerne invece l’intensità di carico, questa dipende dai kg sollevati e più sono rispetto al nostro 1RM dell’esercizio target, più l’intensità di carico sarà elevata.

Un modo per stimare l’intensità di media è anche questo:

Intensità = Volume tot per gruppo muscolare/ numero di serie

Quindi se eseguiamo 3 serie da 10 ripetizioni e 3 da 20 tutte con rpe10 avremo:

(3×10 + 3×20) reps / (3+3) serie = 90/6 = 15RM

Considerando che 1RM corrisponde al 100% del carico massimo utilizzabile, un 15 RM corrisponderà al 60% dell’1RM come intensità media.

CONCLUSIONI

Queste sono le fondamenta per poter costruire la propria programmazione, avere ben chiaro cosa siano e come calcolare questi parametri è la base per preparare un programma efficace.
Senza, un programma è destinato a fallire, come una casa a cui mancano fondamenta solide, alle prime intemperie potrebbe crollare.
Quindi memorizzate ed imparate a gestire questi calcoli, in questo modo avrete in mano già più del 50% di ciò che vi serve sapere per poter programmare.

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COME EVITARE UNO STALLO

La fase di stallo tanto temuta purtroppo è qualcosa a cui tutti bene o male sono soggetti durante la propria programmazione, che sia nella dieta quando si cerca di dimagrire, che nell’allenamento quando si cerca di migliorare la performance.
Purtroppo non esiste il “protocollo perfetto”, bene o male, ogni protocollo per quanto possa essere impostato a dovere è destinato a fallire, o meglio, a portare ad un punto in cui non vi sono più risultati.
Mi spiego meglio, quando cerchiamo di progredire coi carichi o, dimagrire con la dieta, arriva sempre il momento in cui questi non salgono più o, il peso non scende più, questo perché il corpo si adatta al nuovo stimolo.
Siamo fatti per sopravvivere ed evolverci e quindi per rispondere agli stimoli esterni generando un adattamento.
L’organismo quando viene sottoposto ad uno stress reagisce tramite tre fasi, nella prima capta lo stimolo ed entra in fase di allarme, da qui, se lo stimolo non è troppo forte da non permettergli di reagire, inizi a generare adattamenti per sopperire allo stress che riceve, per poi arrivare alla fase finale in cui si è adattato.
Questo è il motivo per cui è fondamentale vi sia un continuo stimolo progressivo, ciò per far sì che l’organismo continui a generare piccoli adattamenti senza andare in stallo.
Purtroppo però talvolta si arriva ad un punto in cui, che si tratti di dieta per perdere peso, o allenamenti per migliorare le proprie performance, questo non scende più o i carichi non aumentano più.
Tutto ciò è causato dal corpo che non riesce più a generare adattamenti sufficienti a poter progredire, in quanto si trova in uno stato in cui ciò che gli si va a richiedere è diventato “troppo”.
Siamo esseri umani del resto e come tali non abbiamo energie illimitate e queste vanno via via esaurendosi col passare del tempo, aggiungiamoci anche che il nostro organismo è fatto per sopravvivere e quindi preferisce ingrassare piuttosto che dimagrire ed il motivo è presto spiegato.

DIETA, COSA PORTA AD UNO STALLO

Quando si comincia la fantomatica fase di ipocalorica si va ad instaurare un deficit per permetterci di perdere adipe e questo funziona se le kcal in uscita sono maggiori rispetto a quelle in entrata (quelle che assumiamo).
Se il deficit è impostato correttamente il peso comincerà a scendere, col passare del tempo però inizierà a scendere sempre più lentamente fino ad arrivare ad un punto in cui non si smuoverà più di un grammo.
Questo perché ci allontaniamo dal set point ideale e più ci si allontana più la perdita di adipe sarà lenta, ciò è dovuto al fatto che il corpo lotta contro la perdita di peso.
Torniamo un attiamo alla preistoria, lì si cacciava per sopravvivere e vi erano giorni in cui la caccia era proficua e permetteva di riempirsi la pancia ed altri in cui ci si ritrovava a digiunare.
L’organismo si è quindi evoluto per sopperire a ciò instaurando dei meccanismi che a livello fisiologico ci rendono difficile perdere adipe, ma per nulla complesso accumularlo, questo perché siamo fatti per sopravvivere purtroppo…
Si scherza eh, però è così, quando vogliamo dimagrire andiamo contro la fisiologia umana.

DIETA, COME EVITARE LO STALLO

Nessuno vuole soffrire troppo durante la fase di deficit calorico, che purtroppo, volente o nolente, rimane comunque pesante da affrontare.
Torna quindi utile tener monitorati alcuni parametri per capire quando è il momento di inserire un refeed o una diet break per riportare il corpo a piena efficienza.
In questo caso torna utile monitorare la temperatura corporea, questa tende ad abbassarsi man mano che si procede col deficit calorico e ciò sta ad indicare una riduzione del dispendio calorico.
Ovviamente per poter utilizzare questo parametro è necessario aver monitorato la temperatura fin dall’inizio della fase di ipocalorica, così da avere dei dati da confrontare quelli attuale.
Bisogna prendere la temperatura dopo 10 minuti che ci si è alzati per ¾ volte e successivamente fare una media per avere un risultato con un minor margine di errore rispetto alla singola misurazione.
Quindi, quando la temperatura sarà scesa troppo, quello sarà il momento opportuno per inserire un refeed o una dieta break, in modo tale da riportare la temperatura a livelli ottimali.
Così facendo l’organismo tonerà ad espletare le proprie funzione in modo efficiente e probabilmente, durante questo aumento calorico vi sarà anche un calo di peso.

ALLENAMENTO, COSA PORTA AD UNO STALLO

Come già detto, tutti i protocolli sono destinati prima o poi a fallire, questo a prescindere da quanto possa essere redatto a dovere, anche quello considerabile perfetto arriverà ad un punto cieco.
Questo è dovuto al fatto che il nostro organismo non è una fonte inesauribile di energie e per quanto si adatti agli stimoli che riceve, non si può continuare a macinare PR su PR (personal record) in palestra.
Arriverà il momento in cui non riusciremo più ad aumentare nemmeno di un kg o di una ripetizioni nei vari esercizi e li sarà il momento di scaricare.

ALLENAMENTO, COME PREVENIRE UNO STALLO

A questo punto mi direte “beh grazie, hai scoperto l’acqua calda” ed è qui che arriva la parte interessante, possiamo muoverci per tempo così da evitare di ritrovarci in piena fase di overreaching e quindi avere bisogno di meno giorni lontani dalla nostra amata sala pesi.
In questo caso vi è un parametro che torna utilissimo ed è quello del battito cardiaco, questo a riposo, ci segnala quando siamo in una situazione di overreaching e c’è bisogno di riposo.
Tenderà ad alzarsi quando ci si ritrova in questa situazione, infatti anche questo dato, come per la temperatura, va preso dall’inizio del protocollo, per avere un dato di partenza con cui confrontare i successivi.
Per farlo occorrere prendere due misurazioni:

-Una prima di alzarsi dal letto, 5 minuti dopo essersi svegliati senza uscire dal letto e/o muoversi.
Qui vanno prese 3 misurazioni e poi va fatta la media

-La seconda dopo 15 minuti che ci si è alzati, facendo poi la media con la prima

Solitamente è consigliato inserire lo scarico quando la media dei battiti si alza di 15-20, risulta inutile inserire lo scarico prima o dopo solo perché lo abbiamo programmato.

CONCLUSIONI

Queste sono alcune strategie che possono tornare molto utili in una preparazione da gara, perché in un contesto così delicato, poter ridurre al minimo la possibilità di errori è fondamentale per arrivare al meglio sul palco.
Quindi, nel caso stiate preparando una gara, o semplicemente voleste essere più precisi, tenete in considerazioni questi dati, torneranno utili.

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IPERTROFIA: MIOFIBRILLA O SARCOPLASMA?

Come per qualsiasi utente che entra in sala pesi, l’obiettivo è migliorare il proprio fisico e quindi cercare di generare ipertrofia e sì, anche voi donzelle che dite di voler solo tonificare state cercando di generare ipertrofia.
Per essere più toniche avete bisogno di più muscolo, quindi…
Per fare ciò è necessario un allenamento che miri allo sviluppo dell’ipertrofia e più precisamente di miofibrilla e sarcoplasma, le componenti che costituiscono in percentuale maggiore i nostri muscoli.

La miofibrilla, o ipertrofia miofibrillare, detta anche ipertrofia funzionale, in quanto agisce sulla parte contrattile del muscolo, generando espressione di forza pura, infatti è tipica dei pesisti.
È sviluppata grazie ad un aumento delle miofibrille che compongono i sarcomeri e delle proteine contrattili actina e miosina.

Il sarcoplasma, o ipertrofia sarcoplasmatica è tipica di chi pratica culturismo invece, in quanto viene sviluppata tramite lavori con TUT maggiore rispetto a quelli che permettono di sviluppare la miofibrilla o lavori metabolici.
Il sarcoplasma è la sostanza all’interno della quale sono situati i sarcomeri ed è composta principalmente da organelli, glicogeno, acqua, lipidi e proteine non contrattili.

IPERTROFIA MIOFIBRILLARE

L’ipertrofia miofibrillare, come già detto, è tipica dei pesisti, in quanto è ciò che permette di generare la massima espressione muscolare della forza, infatti viene sviluppata principalmente da lavori con stimolo meccanico.
Si prestano bene a lavori di questo tipo i classici esercizi multiarticolari o fondamentali, in quanto permettono di utilizzare carichi elevati visto che pongono il muscolo ad un allungamento ideale (teoria del diagramma di tensione/lunghezza).
Viene meno frequentemente ricercata nel bodybuilding, in quanto è l’ipertrofia sarcoplasmatica a regalare più volume e quindi rendere impressivi.
Questo però non significa che lavori con stimolo meccanico vadano tralasciati a fine ipertrofico, in quanto la capacità di utilizzare carichi maggiori su range di ripetizioni più adatti all’ipertrofia permetterà di avere una maggior resa.
Il range di ripetizioni ideale in cui lavorare per ricercare l’ipertrofia miofibrillare è tra le 4 e le 8 ripetizioni, in quanto si tratta di un range più adatto all’ipertrofia, scendere sotto le 4 reps non sarebbe ideale a tal fine, anche se ciò non significa che sia sbagliato.

IPERTROFIA SARCOPLASMATICA

L’ipertrofia sarcoplasmatica è quella che viene maggiromente ricercata da chi pratica bodybuilding, in quanto si vanno ad utilizzare lavori con TUT più lunghi o comunque metabolici.
La componente metabolica che porta a generare ipertrofia sarcoplasmatica andrà svolta utilizzando lavori con TUT piuttosto lunghi, recuperi incompleti che permetteranno l’aumento della concentrazione di lattato, e la diminuzione di CP e di glicogeno muscolare.
Quest’ultima sostanza verrà poi reintrodotta attraverso la dieta e grazie al fenomeno della supercompensazione sarà possibile ottenere quell’effetto estetico di pump muscolare.
Gli esercizi monoarticolari sono quelli maggiormente utilizzati per la ricerca dell’ipertrofia sarcoplasmatica, in quanto non permettono di utilizzare grandi carichi e quindi vi è la possibilità di arrivare a cedimento senza incorrere facilmente in infortuni come invece potrebbe succedere coi multiarticolari, per di più l’impatto sull’SNC di un esercizio monoarticolare è nettamente inferiore rispetto ad un multiarticolare, quindi su lavori ad alte reps risultano meno tassanti.
Questo non toglie che anche i multiarticolari vengano utilizzati per l’ipertrofia sarcoplasmatica.
L’ideale per sviluppare il sarcoplasma è lavorare in un range di ripetizioni che va tra le 8 e le 15 ripetizioni.

QUALE RICERCARE?

Nessuna delle due va esclusa dal proprio percorso, che si tratti di bodybuilding o di pesistica, semplicemente verrà ricercata maggiormente una o l’altra a seconda del fine, in quanto sono connesse tra loro.
Un culturista che ricerca l’aumento di volumi, andando a lavorare con stimoli meccanici potrà pian piano arrivare ad utilizzare carichi più elevati da sfruttare con range di ripetizioni più adatti all’ipertrofia sarcoplasmatica e ciò permetterà di avere risultati maggiori.
Discorso analogo per un pesista, che eseguendo lavori con range di ripetizioni maggiori e quindi andando a sviluppare più volume su un determinato distretto muscolare, a parità di stimolo neurale riuscirà ad esprimere più forza.

CONCLUSIONI

Nonostante la fisiologia umana separi le due tipologie di lavori, non è possibile ricercare solo l’ipertrofia miofibrillare o sarcoplasmatica, in quanto basti pensare che se eseguo serie da 6 ripetizioni, nonostante siano più adatte a generare miofibrilla, in parte, per quanto minima, lo stimolo andrà anche a favore del sarcoplasma.
Per quanto concerne esercizi multi o monoarticolari vale lo stesso discorso, la disciplina praticata non esclude a priori l’ausilio degli uni o degli altri, semplicemente uno dei due verrà sfruttato di più rispetto all’altro o viceversa.

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Quadricipiti: come allenarli?

I quadricipiti sono un gruppo muscolare situato nella porzione inferiore del tronco frontalmente, se ben sviluppati sono di forte impatto a livello visivo ed esprimono forza e dedizione alla vista altrui, in quanto è un gruppo muscolare che risulta ostico da allenare.
Il motivo per cui è così difficile spremerli a fondo in allenamento è dovuto alla mole che presentano, ciò ha un forte impatto sull’SNC.
Si tratta infatti, di un distretto muscolare particolarmente grande (50% della muscolatura del corpo).
La quantità di materia strutturale che servirà per dare quel determinato effetto estetico sarà maggiore.
Per di più, talvolta il problema nel far sviluppare questo gruppo così voluminoso non è solo la mancanza di intensità adeguata, ma bensì di un protocollo mal impostato o l’utilizzo di ROM incompleti.
Quante volte infatti capita di vedere mezzi squat, presse in cui non viene coperto gran parte del ROM e via dicendo?
Tante, questo perché un movimento a ROM completo, non solo risulta nettamente più ostico, ma porta a ridurre drasticamente i carichi utilizzi, con un forte attentato all’ego di ogni utente presente in sala pesi.

ANATOMIA

Il muscolo quadricipite, come si evince dal nome, è composto da quattro muscoli differenti:

-RETTO DEL FEMORE: origina nella spina iliaca anteriore ed inferiore; concorre alla  flessione della coscia sul bacino e rispetto agli altri muscoli è bi-articolare, lavorando sia sull’articolazione del ginocchio che del bacino.

-VASTO LATERALE: origina dai margini del grande trocantere. Ha inserzione sul margine laterale della rotula.

-VASTO MEDIALE: origina nella parte inferiore della linea intratrocanterica.

-VASTO INTERMEDIO: origina dalla faccia anteriore e da quella laterale dei due terzi superiori del corpo del femore e dalla parte inferiore del setto intramuscolare laterale.

RANGE DI RIPETIZIONI E CARICHI DA UTILIZZARE

I quadricipiti sono muscoli molto grandi e come tali si prestano bene a lavori con stimoli meccanici, ma non sono da disdegnare nemmeno lavori più metabolici.
Quindi sarà opportuno coprire tutti i range di ripetizioni nella seduta di allenamento per dare uno stimolo completo.
Partendo quindi da lavori tra le 3 e le 6 ripetizioni, fino ad arrivare anche a 20/25, se non oltre.
Queste tipologie di lavoro, per quanto risultino diametralmente opposte, sono efficaci se inserite con cognizione di causa.

Per quanto concerne il carico invece, sarà opportuno sviluppare una discreta forza prima di perdersi in tecniche dai nomi esotici come viene solitamente fatto dalla maggior parte degli utenti in palestra.
Essendo un gruppo che si presta molto bene a lavori con stimolo meccanico, avrà bisogno di carichi adeguati per poter rendere le sedute in sala pesi produttive.
Quindi, sarà opportuno arrivare ad utilizzare carichi come un 2xBW nello squat prima di passare ai lavori di contorno, già riuscendo a maneggiare un carico del genere, vi ritroverete con delle gambe discrete.
Mi raccomando però, lo squat deve essere eseguito a ROM completo, altrimenti, se il 2xBW lo sollevate con un dildo squat (a mezzo ROM per intenderci), tanto vale andare a farsi una pedalata in montagna, sarà sicuramente più efficace.

VOLUME E FREQUENZA

Il volume allenante ideale da tenere settimanalmente dipende dal soggetto, normalmente si viaggia tra le 8 e le 24 serie settimanali, ma nessuno vieta di andare oltre o fare ancora meno.
Sicuramente per un soggetto predisposto a sviluppare con facilità i quadricipiti, potranno essere sufficienti 8 serie se non meno, a seconda del tipo di lavoro utilizzato, si trattasse di un allenamento in heavy duty
anche 2 serie potrebbero essere più che sufficienti.
Al contrario, per chi è “meno fortunato”, potranno essere necessari volumi nettamente maggiori, talvolta
fare troppo non stroppia, triste ma vero.
Ovviamente il volume globale della programmazione dovrà tener conto anche di quello utilizzato per gli altri gruppi muscolari, in quanto, aimè, non è possibile for progredire tutti i gruppi muscolari di pari passo, soprattutto considerando che l’SNC richiede un tempo di recupero maggiore e trattandosi di un gruppo così grande, l’impatto non sarà differente.

Per quanto concerne la frequenza settimanale invece, a seconda del volume utilizzato, si potrà adattare una frequenza da 1 o 4 giorni a settimana.
Una frequenza elevata può tornare utile per diversi motivi, dalla riduzione dello stress sistemico della singola seduta, in caso di alto volume settimanale, all’attivazione più volte nella stessa settimana della sintesi proteica.
Dare uno stimolo ai quadricipiti due volte a settimana, porterà ad una resa nettamente maggiore, basti pensare al fatto che in anno ci sono circa 48 settimane, attivare la sintesi proteica una volta a settimana produrrà risultati sicuramente inferiori a farlo 2, che si tradurrà in 96 volte in un anno contro le altre 48.

COME IMPOSTARE UNA SEDUTA

Il parco esercizi su cui possiamo lanciarci quando parliamo di quadricipiti è veramente vasto, si spazio dallo squat, agli affondi, al sissy squat e chi più ne ha più ne metta.
Quindi direi di focalizzarci su cosa deve avere una routine di allenamento per dare uno stimolo completo.

Prima di tutto i range di ripetizioni da utilizzare:

Il muscolo è composto maggiormente da miofibrilla e sarcoplasma, poi, in piccola percentuale anche da capillari, glicogeno, ecc.
Quindi bisognerà coprire tutti i range di ripetizioni, in modo da stimolarne tutte le componenti e qui ci viene in aiuto il buon vecchio Hatfield (https://wordpress.com/post/lucabertalli.com/108).
Quindi sarà opportuno inserire almeno 3 esercizi, uno a basse reps per stimolare la miofibrilla, uno a reps medie per stimolare il sarcoplasma ed uno a reps alte per dei lavori di capillarizzazione.
In questo modo verrà svolto un lavoro completo, se poi si desidera aggiungere altri esercizi con i medesimi range di ripetizioni, quello non sarà un problema, ora io sto solo dando un quadro generale del lavoro che andrebbe, o, si può svolgere.

Scelta degli esercizi:

Dopo aver visto come vanno lavorati, è il momento di soffermarci sulla scelta degli esercizi.
Come già detto, la lista è pressoché infinita, infatti voglio fare qualcosa di più del lasciarvi semplicemente un elenco di nomi, voglio farvi capire come e quali scegliere.
Quando alleniamo un muscolo, in questo caso i quadricipiti, avremo notato tutti che a seconda degli esercizi, ci sono punti del ROM in cui il lavoro è maggiore, in quanto si percepisce più tensione, ad esempio in sissy squat, ad inizio concentrica ci sentiremo morire, mentre verso la fine ci sembrerà quasi di non lavorare.
Ecco, questo è il picco di massima contrazione che è diverso in ogni esercizi, è fondamentale scegliere almeno 3 esercizi con picchi di massima contrazione differenti, in modo tale da avere il massimo lavoro in tutte le porzioni del ROM e di conseguenza, non lasciare alcune porzioni di fibre meno allenate rispetto ad altre.
Quindi sarà opportuno scegliere un esercizio col picco di massima contrazione in allungamento, uno in accorciamento ed uno a circa metà ROM.
In questo caso ad esempio una combo ideale potrebbe essere:
-Squat o pressa
-Sissy squat
-Leg Extension

SCHEDA DI ALLENAMENTO

Una scheda di allenamento ideale per i quadricipiti, dopo quanto abbiamo visto fino a questo punto potrebbe essere:

-Hack squat 5×5 in ramping

-Sissy squat 4×10 con T.U.T. 1-1-1-0

-Leg extension 3×25/20

In questo modo avremo il picco di massima contrazione a metà ROM, uno stimolo meccanico ed una progressione con l’hack squat grazie al 5×5 in ramping, la presenza di una qualche forma di progressione è fondamentale ai fini ipertrofici ed è la base nel bodybuilding.
La scelta dell’hack squat è stata dettata dall’assenza dell’effort e dal maggior lavoro sui quadricipiti, cosa che con una pressa o uno squat verrebbe disperso anche in parte sulla catena cinetica posteriore.

Col sissy squat avremo il picco di massima contrazione in allungamento enfatizzato dal fermo a fine eccentrica ed un lavoro a range di ripetizioni medie.

Con la leg extension avremo il picco di massima contrazione in accorciamento ed un lavoro a range di ripetizioni alte.

CONCLUSIONI

In questo modo sappiamo come muoverci e giostrarci per poterci allenare al meglio ed in modo completo.
Talvolta l’allenamento del lower body non è valorizzato come dovrebbe visto che le gambe rimangono sempre coperte alla fine e ci si perde alla ricerca di un braccio più grosso o un deltoide più tondo.
Invece si tratta di uno dei gruppi più difficili da allenare in maniera corretta e sviluppare, quindi diamogli l’importanza che merita.

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Polpacci, come mai non crescono?

Bene, se hai aperto questo articolo significa che anche tu hai difficoltà a sviluppare il tricipite della sura, detto anche volgarmente “polpaccio”.
Si tratta di uno dei muscoli che pare rispondere meno di tutti a livello ipertrofico all’allenamento con sovraccarichi.
È il classico gruppo muscolare che porta frustrazione, in quanto, talvolta pare impossibile migliorarlo nonostante i molteplici sforzi del caso.
Proprio per questo motivo si sentono spesso frasi del tipo: “i polpacci sono genetica”, “non allenarli, tanto non crescono”, “l’unica è utilizzare degli impianti come fanno i culturisti di alto livello”.
Queste sono tutte mezze verità, polpacci degni di nota nel mondo dello sport esistono eccome, quindi vediamo di fare chiarezza.

ANATOMIA

Il tricipite della sura è costituito da tre ventri:

  • ventre mediale o gemello mediale, che origina dall’epicondilo e dal condilo mediale del femore, posteriormente;
  • ventre laterale o gemello laterale, che origina dall’epicondilo e dal condilo laterale del femore, posteriormente;
  • ventre anteriore o muscolo soleo, che origina sulla superficie posteriore della testa del perone e sul terzo postero-superiore della diafisi peroneale, sulla linea poplitea della tibia e dall’arcata del soleo.

I tre tendini si uniscono a formare il tendine di Achille che si inserisce sulla tuberosità del calcagno nella sua porzione posteriore.

I due gemelli nel loro insieme son detti gastrocnemio o più comunemente polpaccio.
Entrambi i tendini di origine del gastrocnemio sono separati dal ginocchio tramite una borsa mucosa; la borsa mucosa del capo mediale è in comunicazione, di solito, con la cavità articolare del ginocchio e con una borsa posta fra il capo mediale stesso ed il muscolo semimembranoso.
I due capi formano i corrispondenti margini inferiori della fossa poplitea.

Il tricipite è innervato dal nervo tibiale e vascolarizzato dalle arterie gemellari.

CHI HA I POLPACCI GROSSI?

Non sono pochi i soggetti che possono esibire dei polpacci voluminosi e molti di questi nemmeno li allenano, non direttamente almeno.
Avete mai fatto caso alle persone in forte sovrappeso?
Spesso, se non sempre presentano polpacci voluminosi e sicuramente questi non li allenano, non usate la scusa del grasso eh, il muscolo sotto è presente.
Le ballerine, ragazze che portano spesso tacchi alti, gli alpinisti, i ciclisti e molti altri, presentano tutti polpacci degni di nota.
Quindi si tratta realmente di genetica o altro?
La genetica sicuramente influisce, ma come in qualsiasi campo, qualcuno più predisposto di noi ci sarà sempre, però non è possibile che chiunque sia predisposto fuorché noi.

FUNZIONI DEL POLPACCIO

Nel suo insieme, il tricipite surale ha il compito di flettere ventralmente il piede. Tuttavia, mentre il soleo assume solo questo ruolo, il gastrocnemio (composto da gemello mediale e laterale) ha anche la funzione di flessore della gamba sulla coscia.
Risulterà quindi chiaro quando lavora il polpaccio, ovvero quando vi è una flessione del piedi, infatti i macchinari con cui lo si va solitamente a stimolare prevedono tutti questo movimento, si differenziano solamente per i gradi di flessione in cui si va a trovare il ginocchio e l’anca,
Ora non soffermiamoci su quale sia la differenza, ma andiamo avanti.
Quindi, il polpaccio è praticamente sempre attivo, quando camminiamo, quando squattiamo, quando ci alziamo da una sedia e ciò dovrebbe già far intuire perché soggetti come quelli citati sopra presentano dei polpacci sviluppati.
Ma nel caso non lo fosse…
Considerando che il polpacci è un muscolo che lavora costantemente ed è sempre coinvolto in tutti, o quasi, i movimenti che compiamo quotidianamente, pensiamo ad una persona sovrappeso, ha sempre un grande carico da spostare quando cammina, un alpinista cammina principalmente in strade in salita, una ragazza coi tacchi sarà costantemente in isometria coi polpacci per stare in piedi, un ciclista continuerà a flettere il piede per pedalare e via dicendo.
Ora sarà sicuramente tutto più chiaro e per molti sarà arrivata anche la pulce all’orecchio che suggerisce il perché questi soggetti abbiamo polpacci così sviluppati e noi no, ma proseguiamo….

La genetica può solo determinare la tipologia di fibre e la forma geometrica del polpaccio, che quindi può essere più o meno predisposto a generare ipertrofia, ma non può impedirne la crescita e talvolta il problema è solo la mancanza di un approccio adeguato o di costanza nell’allenarli.

PER COSA SONO FATTI I POLPACCI?

Come detto sopra, il polpaccio è composto dal soleo, un muscolo molto resistente e formato principalmente da fibre rosse, ovvero fibre di tipo ossidativo, in una percentuale variabile tra il 70 ed il 90% in quanto serve a sorreggerci e quindi deve poter sopportare sforzi di luuuunga durata.
Dopo di che c’è il gastrocnemio, composto per un 70/50% da fibre bianche che ci dà quella spinta aggiuntiva se necessario, oppure partecipa in maniera blanda durante una semplice camminata.
Bisogna tener conto che il soleo è molto più grande del gastrocnemio, quindi, quando li alleniamo, se vogliamo maggior impatto a livello visivo è importante far sviluppare maggiormente il primo.
Per di più il gastrocnemio, per come si inserzione viene messo “fuori gioco” in esercizi in cui siamo seduti, al contrario, negli esercizi eseguiti in piedi o comunque a ginocchio esteso, lavora in sinergia col soleo, quindi sarà sicuramente ottimale prediligere principalmente questi, riducendo il lavoro su macchinari come la sitting calf.
Il gastrocnemio essendo in catena cinetica e in catena elastica, in quanto condivide la stessa continuazione di fascia con i muscoli ischiocrurali, ha la proprietà di prolungare e rendere coerente la sua azione meccanica con quella dei muscoli suddetti. Cosa fanno gli ischiocrurali mentre camminiamo?
Ci permettono di avanzare e concorrono alla nostra postura eretta, ma fanno molto di più quando corriamo, esercitando quella forza graffiante al terreno e di propulsione in avanti.
In quel frangente il gastrocnemio esalta le sue proprietà biomeccaniche, soprattutto quando si effettua uno scatto di velocità.
Se invece stiamo facendo trekking in un sentiero di montagna in pendenza l’azione rallenta enormemente e si verrà a creare una bella serie interminabile di concentriche lente, caricate di grande tensione e una totale mancanza di eccentriche…almeno finché non arriverà il momento di scendere verso valle: allora lì avremo solamente la fase negativa del movimento.
Che dire del lavoro meccanico ai pedali invece, quelli con gli attacchi per le scarpette alle punte, nelle bici da corsa? Abbiamo un bel ciclo gamba stesa gamba accorciata, una tensione pulsatile che ruota costantemente tra soleo e soleo+gastrocnemio, e una spinta graffiante dall’alto verso il basso e dal davanti verso il dietro.
Questo cosa significa?
Che un 3×20 sarà abbastanza ridicolo considerarlo allenante rispetto alla mole di lavoro che svolgono i polpacci in queste situazioni, ecco spiegato come mai i soggetti citati prima presentano dei polpacci degni di nota.
I polpacci sono fatti per sopportare alto volume portandoci in giro tutto il giorno, 60 ripetizioni divise in tre serie equivalgono ad una pisciata nell’oceano in sostanza.

COME ALLENARLI

Sarà ora chiaro che la chiave di volta è il volume, ma non solo!
Ebbene sì, non basta solo l’alto volume, ci vuole anche alta frequenza, ripensiamo sempre a ciclisti e compagnia bella citata prima, loro sì, lavorano ad alto volume, ma anche alta frequenza, perché ciò
avviene spesso nella settimana.
Quindi sarà opportuno eseguire lavori molto voluminosi e frequenti, possibilmente riducendo al minimo le serie a ripetizioni medio basse per evitare di sporcare il gesto tecnico e rischiare di incappare in infortuni come la fascite plantare o simili.
Le possibilità sono molteplici, sta solo a voi sbizzarrirvi, magari iniziate con 3 sedute a settimana da 20 serie l’una di cui 10 da 20/15 alla standing calf e 10 da 30/25 alla sitting calf.

Vi riporto la mia esperienza personale in fatto di polpacci perché possiate prendere spunto….
I maggiori miglioramenti li ho visti quando ho iniziato ad eseguire 100 calf liberi al giorno, si, ogni giorno, andando ad incrementare di 25 reps ogni 2 settimane, per capirci meglio, prime due settimane 100 al giorno, altre due a 125 al giorno, altre due a 150 e così via fino a che sono arrivato a totalizzarne 350 al giorno che ho mantenuto per un mesetto per poi cambiare lavoro.
Personalmente ho visto una differenza abissale nel tempo e non solo in termini di volume, ma anche di qualità, un cambiamento che non mi sarei mai aspettato, quindi vi consigli vivamente di provare anche questa metodica.

CONCLUSIONI

I polpacci sono sì dei muscoli su cui la genetica può creare molti problemi, ma nella maggior parte dei casi vi è solamente mancanza di un lavoro adeguato o di costanza nell’allenarli.
Vanno martoriati con alto, altissimo volume e frequenza per vederli crescere, perché di base sono fatti proprio per questo, sopportare ingenti moli di lavoro.
Quindi provate e divertitevi ad ammazzarli di serie su serie per vederli pian piano migliorare.

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Scheda di allenamento: come renderla efficace.

Tutti gli utenti in palestra hanno a disposizione la fantomatica “scheda di allenamento” che custodiscono gelosamente e che bene o male tutti, fin dal primo ingresso in sala pesi hanno avuto tra le mani.
È ciò che ci guida nei nostri allenamenti e che ci permette di seguire delle sedute programmate con cognizione di causa in un’ottica a lungo termine.
Talvolta però ci si ritrova a non ottenere risultati, o perlomeno quelli sperati, in questo caso la prima cosa che accade solitamente è quella di ergere la “scheda” a colpevole, quando talvolta ( o quasi sempre), il problema non è questa, ma bensì chi la mette in pratica.
Se mancano i presupposti per svolgere un allenamento di qualità, anche il protocollo migliore del mondo non porterà a ciò che desideriamo.
Quindi, prima di cambiare programmazione o addirittura preparatore dandogli la colpa rendiamoci conto se in realtà il problema alla base non sia solamente il modo in cui ci poniamo verso l’allenamento.
Un semplice 4×6 a qualcuno può portare a grandi risultati, ad altri non sortire alcun effetto, perché?
Perché bisogna comprendere il LIVELLO DI INTENSITÀ che siamo in grado di raggiungere.

COSA CI PORTA O MENO AD AVERE RISULTATI?

Le cause sono molteplici, ma limitiamoci a vedere le principali in ordine di importanza:

-TECNICA ESECUTIVA: La tecnica di esecuzione degli esercizi è fondamentale, permette di allenarsi in sicurezza e attivare tutte le fibre coinvolte senza disperdere più del dovuto il carico esterno (ovvero il carico spostato) sui muscoli sinergisti (ovvero quelli che intervengono per compiere il movimento).
L’apprendimento del corretto schema motorie è la base per poter rendere un esercizio efficace.

-INTENSITÀ: è vero che non è necessario portare a cedimento ogni singolo set, è ormai dato per assodato che il cedimento va contestualizzato, ma se non siamo in grado di portare a reale cedimento un set, l’ausilio di set con rpe differenti saranno totalmente inutili, visto che a prescindere, anche quando sarà richiesto il grado massimo di intensità esprimibile staremo comunque lavorando a buffer.
Questo è proprio un problema di questa “era” in cui sono le programmazioni sono molto più complesse e studiate, con l’approdo del lavoro a buffer, la maggior parte degli utenti non riescono ad imparare ad esprimersi al massimo sotto carico e questo porta ad una grande lacuna.
Il classico 3×8 è più che efficace per ottenere risultati, peccato funzioni ormai con pochi, quei pochi che sanno davvero cosa significhi eseguire un 3×8.

-DARE UNO STIMOLO COMPLETO: Il muscolo è formato da miofibrilla, sarcoplasma, capillari, glicogeno, ecc…
Perché questo possa svilupparsi a piano ha bisogno di uno stimolo completo.
Ammazzarsi solamente di serie a pompaggio o a basse ripetizioni porterà inevitabilmente ad uno stallo e quindi non ci permetterà di andare molto lontano.
È fondamentale che nell’allenamento vi siano inclusi tutti i range di ripetizioni selezionando degli esercizi che si prestino bene al tipo di lavoro che vogliamo fare.
Il vecchio  Hatfield infatti ci aveva visto lungo proponendo la sua metodica di allenamento, semplice e funzionale (clicca qui per leggere l’articolo in merito https://wordpress.com/post/lucabertalli.com/108 ).
Per farla breve, la sua metodologia proponeva di cominciare con un esercizio a reps basse per dare uno stimolo meccanico, uno a reps medie per uno stimolo ipertrofico e per chiudere uno a reps alte per un lavoro di capillarizzazione, semplice ma efficace.

-GENERARE UNA PROGRESSIONE: Come ultimo, ma non meno importante la presenza di una progressione.
È stato ormai dato per assodato che il modo (quando gli altri tre fattori sopracitati sono a posto) che per avere miglioramenti costanti nel tempo è necessario che sia presente una progressione a livello di carichi o volume.
Questo è importantissimo perché si possa continuare a migliorare, basti pensare al fatto che a parità di stimolo neurale, spostare un carico maggiore a parità di serie e ripetizioni o lo stesso carico con serie e ripetizioni più alte implica un aumento della sezione trasversa del muscolo, ovvero maggior volume.
Quindi il programma deve prevedere un lavoro di progressione costante nel tempo, che sia appunto, a livello di intensità o volume.

Questi sono i 4 fattori chiave che rendono un programma efficace, ne manca però uno che non applicabile al singolo protocollo, ma bensì a tutti quelli che un utente segue…

LA BASE DI UN PERCORSO EFFICACE

Ebbene sì, c’è qualcosa che possiamo dire essere al di sopra di questi 4 fattori, ovvero la PROGRAMMAZIONE A LUNGO TERMINE.
è vero, un protocollo che presenta questi 4 fattori è un protocollo efficace, ma porterà ad un certo punto ad un “fallimento” per l’atleta, presto stallerà e non andrà più oltre.
Alla base di un percorso efficace è necessario vi sia una programmazione a lungo termine ben redatta, sarà quindi necessario preparare un macrociclo completo in ottica di un obiettivo a luuuuungo termine prima di iniziare a redigere vari protocolli per il soggetto interessato.
Attenzione, ciò non significa dover preparare prima tutti i programmi che dovranno essere seguiti durante l’anno, ma semplicemente creare una linea guida di un susseguirsi di programmazioni con stimoli e lavori differenti in ordine progressivo.
Preparare ogni programma prima sarebbe un azzardo, in quanto, come scritto sopra si tratta di una linea guida e può subire variazioni in corso d’opera a seconda di come reagisce il soggetto nel tempo.
Questo però, permette di avere un’immagine chiara del lavoro che si andrà a svolgere e che ci permetterà di arrivare all’obiettivo prefissato con al miglior condizione possibile.
Il nostro corpo non è un computer, bensì è nettamente superiore e complesso, l’uomo, fin dall’antichità si è evoluto adattandosi agli stimoli esterni ed è proprio ciò che avviene con l’allenamento, stimolo nuovo che porta ad un adattamento.
Proprio per questo è importante avere una periodizzazione a lungo termine, per continuare a generare nuovi adattamenti senza stalli, che pian piano portino al risultato desiderato.

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